Il codice di procedura civile contempla uno speciale procedimento a cognizione piena per la disciplina della controversie in materia di lavoro, riservato alla “competenza” di giudici a ciò funzionalmente destinati e, per questo, muniti di un sapere tecnico-giuridico necessariamente specializzato. La previsione di un trattamento differenziato per questa tipologia di contenzioso risponde a due fondamentali ragioni: per un verso, la diseguaglianza economica tra una parte e l’altra del rapporto contrattuale; per un altro, la natura e il contenuto delle situazioni sostanziali oggetto della lite, coincidenti quasi sempre con i diritti indisponibili o semi-indisponibili o disponibili e, però, protetti da norme inderogabili o comunque di rango costituzionale.
Le disposizioni relative – introdotte dalla l. n. 533 del 1973 in risposta all’emersione dei nuovi diritti dovuta alle fondamentali riforme di carattere sostanziale dalla fine degli anni ’60 e dall’inizio degli anni ’70 dello scorso secolo – non hanno subito significative modifiche e, anzi, hanno conosciuto una sempre più ampia espansione ed esportazione in altri e differenti contesti. Circa dieci anni fa, peraltro, il processo del lavoro è assurto a vero e proprio “modello” processuale (accanto a quello “sommario di cognizione” e a quello “ordinario”) per tutte le controversia contraddistinte da «prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di ufficiosità dell’istruzione», sia pure con l’esclusione di norme codicistiche dettate in precipua funzione di tutela del lavoratore o comunque incompatibili. Ne è conseguita la necessità di distinguere tra “rito del lavoro” e “rito delle controversie di lavoro“, intendendo con quest’ultima formula soltanto il procedimento da esperire per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c.